VENT’ANNI DALLE TORRI GEMELLE

Twin Towers

L’11 settembre scorso si contavano venti anni dall’attacco terroristico organizzato da Osama Bin Laden al World Trade Center di New York, conclusosi con la distruzione delle Torri Gemelle, con circa 3000 morti sia per il crollo, che per le conseguenze della sua nube tossica; un attacco micidiale al cuore pulsante dell’occidente ed ai suoi simbolici centri di potere: le Torri, il Pentagono e solo grazie ad un coraggioso atto di rivolta dei passeggeri di un areo dirottato, l’altro esplicito simbolo, il Campidoglio, fu risparmiato.

Ci penserà quasi un ventennio dopo un Presidente degli USA, Donald Trump, a violarlo in modo non cruento, ma altrettanto simbolico.

L’anniversario è capitato proprio a ridosso dell’abbandono caotico e insanguinato dell’Afghanistan da parte delle truppe americane, combinando così un mix mediatico improponibile ed insopportabile di sconfitte, tanto che le celebrazioni del luttuoso evento hanno dato l’impressione di una frettolosa archiviazione, lontano dalla riflessione politica e dalla lezione storica che se ne sarebbe potuto trarre.

La mente non può non andare alla definizione che si diede, per gli attentati palestinesi, alla prima Intifada: si parlò di conflitto asimmetrico: da una parte l’esercito israeliano, uno dei più organizzati ed efficienti del mondo, dall’altra sassi, coltelli ed infine bombe umane, uomini e donne suicidi nel colpire il nemico.

L’asimmetria dell’11 settembre 2001 che porta la guerra a New York utilizzando come arma degli aerei civili di linea dirottati su obiettivi strategici prefissati, ricorda come, (durante la prima Intifada iniziata a Jabaliya nel dicembre 1987 e durata 6 anni), nel luglio 1989 fu dirottato un bus israeliano, da un palestinese che lo fece precipitare in una scoscesa scarpata provocando 16 morti.

Come ricorda Adriano Sofri commentando l’anniversario dell’11 settembre, “quel giorno l’Occidente perse la guerra dei simboli” ed ancora oggi, come l’episodio tragicamente classificato come danno collaterale nelle vie di Kabul in Afghanistan, lancia missili da droni “marziani” uccidendo bambini ed innocenti, mentre gli altri “mandano padri imbottiti di esplosivo, ragazze incinte della propria bomba.”

Anche allora vent’anni fa, l’altra asimmetria, quella della risposta militare USA, scatenò due guerre con centinaia di migliaia di morti, coinvolgendo tutti paesi occidentali, restati attoniti ed inattivi anche di fronte alle evidenti balle sui depositi di armi di distruzione di massa mai scoperti, gli attacchi sospetti all’antrace, la retorica delle pistole fumanti, del dittatore sanguinario, sino a poco prima fedele alleato nella guerra con l’Iran.

Qui, nel ventennale triste e frettoloso che abbiamo celebrato, rimbalzano le eco del tramonto dell’Occidente, della fine dell’Impero degli Stati Uniti, del ritorno della dottrina Monroe che aveva ispirato Trump con quel “Prima l’America” che ha finito per voler affermare non certo una supremazia globale, ma la cura degli interessi domestici all’interno dei confini patri da difendere anche con mura, filo spinato e frustate.

Da Joe Biden alcuni sprazzi di speranza: la democrazia come valore universale dell’intero Occidente e dei suoi alleati, come motivo nobilitante e valoriale da misurare con le dittature e gli autoritarismi degli altri; il confronto globale da spostare sul piano diplomatico, economico e culturale, lontano da guerre calde o fredde, che hanno mostrato la loro inutilità e dannosità proprio sulla pelle e gli interessi degli americani.

Francesco Chiucchiurlotto