GLI EQUIVOCI DI LIVORNO

Filippo Turati

Dove si può rappresentare un dramma se non in un teatro? E se i teatri sono due, come nel gennaio 1921 a Livorno, il teatro Goldoni ed il teatro San Marco, i drammi rappresentati sono due: il fallimento della posizione riformista e di quella rivoluzionaria del Partito Socialista Italiano e del Partito Comunista d’Italia, di allora, di fronte alla montante, inarrestabile, ma militarmente risibile, avanzata dello squadrismo fascista.

Oggi a cento anni di distanza da quel 21 gennaio 1921 c’è una unanime ricostruzione storica e politica di quegli avvenimenti, seppur con qualche distinguo, ma almeno le parole, le dinamiche, i fatti di quei giorni sono noti.

Ma per anni, una storiografia non ufficiale, ma unica e mitologizzante, una vulgata popolare, diffusa come strumento politico, alcune immagini iconiche imposte o altre trascurate, ne avevano dato una significanza diversa.

Ma ancora oggi c’è un vuoto da colmare, un redde rationem da attribuire, un onore da rinfrancare, un personaggio politico da studiare e scoprire: Filippo Turati, uno degli sconfitti dalla storia, insieme ad Antonio Gramsci ed il Gruppo dell’Ordine Nuovo di Torino, che però al contrario di lui hanno ricevuto anche oltre il loro merito.

Turati è tra i fondatori del Partito dei Lavoratori Italiani, a Genova nel 1892 e che nel 1895 a Genova diverrà il P.S.I.; una vita intera dedicata alla causa del socialismo sino all’espatrio avventuroso in motoscafo per sfuggire alla repressione fascista nel 1926, ed è il più limpido teorico del riformismo italiano, punto di riferimento di Pertini, Parri, i Rosselli, Treves, Buozzi, Olivetti e tanti altri, ma anche il più dimenticato e trascurato dalla storiografia ufficiale e non.

“Noi rifiutiamo la violenza come programma” disse nel suo intervento a Livorno” la dittatura del proletariato, la persecuzione dell’eredità da cui nasciamo…noi lavoriamo troppo spesso per i nostri nemici… noi creiamo la reazione, creiamo il fascismo intimidendo, intimorendo oltre misura..”; è la tabe delle continue proclamazioni rivoluzionarie vuote ed inconcludenti.

“Il socialismo che diviene è sindacato, cooperative, cultura. Non diviene per altre vie, ogni scorciatoia non fa che allungarne la strada.”

E’ il manifesto riformista chiaro e coerente della sua posizione, ma è anche il primo esiziale equivoco politico di Livorno: il non cogliere che il problema della violenza politica non è materia di dibattito o di linea politica, ma scontro nelle piazze, nelle sedi di partito, nelle redazioni e tipografie dell’Avanti, delle Camere del Lavoro, nelle cooperative, dove lo Squadrismo, la vera intuizione vincente di Mussolini, con la complicità della  “forza” statuale, in quegli stessi giorni, dopo il fallimento della Settimana Rossa, sta avendo la meglio.

Il secondo equivoco lo si deve a Vladimir Ilic Lenin e nella sua analisi sbagliata sull’imminenza della rivoluzione italiana: con quali armi, quali eserciti in dissolvimento, quali masse esasperate e politicizzate aveva messo in conto?

Il suo delegato bulgaro, Christo Stefanov Kabakciev, è il vero leader egemone di Livorno; è lui la voce della rivoluzione trionfante, suoi sono gli ordini perentori di Mosca, la capitale della III Internazionale Comunista, le sue parole sono quelle di Amadeo Bordiga che guida i suoi al teatro San Marco per organizzare il P.C.d’.I. Antonio Gramsci non intervenne!

Francesco Chiucchiurlotto