GOLD STANDARD

gold standard

Mi capita ogni tanto di raccontare come il mio cursus universitario alla Sapienza di Roma iniziasse nel 1968 per finire con la laurea in giurisprudenza nel 1978: dentro i più importanti  movimenti politici giovanili italiani, appunto quelli del Sessantotto e del Settantasette.

Esperienza quindi peculiare e rara sulla quale potrei, eccedendo in reducismo, discettare sulle loro diversità ed analogia ideologiche; sulle radici sociali e culturali di ciascuno, sugli esiti sia positivi che nefasti che entrambi ebbero; ma non certo oggi.

Però cogliendo sempre con favore il filo del ricordo che gli anniversari comportano, vorrei parlare di un esame in Economia tenuto nell’ottobre del 1971, il cui brillante svolgimento mi procurò un 28, voto che all’epoca di università molto distanti dai laureifici di oggi, era un piccolo successo.

L’esame andò dal moltiplicatore K di Maynard Keynes, alla produttività marginale del lavoro, per finire agli accordi di Bretton Wood del 1944, che fissarono il cosiddetto GOLD STANDARD, cioè la parità tra oro e dollaro, che era la moneta più forte, ma in generale l’ancoraggio dell’emissione di denaro alla quantità di oro posseduta dagli stati e quindi anche l’interscambiabilità oro/dollaro.

Da lì iniziai una dissertazione su quello che era accaduto poche settimane prima, il 15 agosto 1971, cinquant’anni fa, di qui l’anniversario ferragostano, in cui finì il sistema della parità oro/dollaro, con tutte le conseguenze che si cominciarono subito a delineare.

Naturalmente non era materia d’esame essendo l’evento freschissimo, ma la lettura di almeno due tipi di quotidiani e riviste, della stampa ufficiale e del Movimento, mi aveva fornito notizie e valutazioni che i Prof parvero gradire molto.

Quando Richard Nixon, che sarebbe pochi anni dopo con lo scandalo del Watergate diventato Tricky Dicky (Riccardino l’Imbroglione) annunciò la fine del GOLD STANDARD, si potevano sapere le ragioni delle negatività che si lasciavano indietro, ma anche le preoccupazioni delle incertezze circa i vantaggi che ne sarebbero derivati.

Oggi possiamo dire che la scelta fu azzeccata; infatti la parità e fissità dei cambi avevano garantito uno sviluppo capitalista nella parte occidentale del mondo, accelerato nel dopoguerra sino agli anni settanta.

Ma la rigidità del sistema non poteva reggere ai cambiamenti epocali sia politici che economici che grazie a quella stabilità si erano sviluppati nel mondo e non a caso gli USA con la guerra del Viet Nam sempre più dispendiosa ed incerta e con la concorrenza di Europa e Giappone sempre più incalzante, la fecero terminare per avere mani libere per nuove politiche economiche espansive.

Di che tipo? Ma debitorie naturalmente; che da una parte hanno garantito welfare e consumi mai visti nella storia dell’uomo; ma dall’altra hanno esposto il sistema a crisi cicliche sempre meno controllabili e ad un fenomeno totalmente nuovo nel campo dei players internazionali, la comparsa delle cosiddette Big Tech, potenze economiche della tecnologia, del commercio e delle telecomunicazioni, del tutto fuori dagli schemi della politica e degli Stati, anzi in aperta concorrenza con essi, come la Cina di Xi sta dimostrando.

Presi un bel meritato 28 e ne conservo un piacevole ricordo ora condiviso.

Francesco Chiucchiurlotto