L’11 giugno del 2021 ci lasciava Quarto Trabacchini

Loggia Palazzo Papale Viterbo

Il ricordo della sua personalità, del suo impegno e della sua passione è vivo e non potrebbe essere diversamente per una figura che, senza dubbio, è stata tra le più rappresentative della politica e della sinistra viterbesi.

Il suo percorso è stato interamente inscritto dentro i caratteri di una politica fondata sui grandi partiti popolari e di massa in cui la militanza generosa, il senso di appartenenza ai valori e agli ideali di emancipazione umana e lo spirito di servizio erano gli elementi essenziali che formavano i dirigenti politici. Così accadeva nel PCI. Più tardi si disse, anche con qualche ragione, che quella impostazione era eccessivamente rigida, ma è altrettanto vero che quella modalità presupponeva il rispetto per la politica e le istituzioni democratiche e lasciava davvero poco spazio all’improvvisazione.

Trabacchini nei primi anni ’70 fu Segretario Provinciale della Federazione Giovanile Comunista Italiana. Dal 1980 al 1987 ricoprì il ruolo di Segretario Provinciale del PCI di Viterbo. Nel 1987 venne eletto alla Camera dei Deputati.

Di recente ho avuto modo di recuperare e leggere i suoi interventi parlamentari e li ho trovati molto interessanti perché aiutano a capire il confronto politico di allora e anche alcune cose che accadono oggi.

Alla Camera fu membro di due commissioni: Attività Produttive e Difesa. Due scelte che incrociavano grandi temi nazionali e che, contemporaneamente, avevano una forte attinenza con le esigenze del territorio.

Venne proclamato Deputato il 2 luglio del 1987 e di lì a pochi mesi, l’8 e il 9 novembre 1987, si svolse il referendum sul nucleare che avrebbe avuto implicazioni decisive sulla vicenda della Centrale Enel di Montalto di Castro. Trabacchini intervenne ripetutamente sull’argomento utilizzando tutti gli strumenti che aveva a disposizione: interrogazioni, mozioni, interpellanze, interventi in commissione e interventi in aula. Dai resoconti stenografici emerge una posizione chiarissima che respingeva la scelta del nucleare per il Paese e considerava l’impianto di Montalto una servitù inaccettabile per un territorio come il nostro, anche se massima fu la sua attenzione per le domande e i diritti dei moltissimi lavoratori impegnati in quei cantieri. Il dilemma tra salute e lavoro metteva in tensione la politica e, in particolare, la sinistra e spingeva nella ricerca di un equilibrio non sempre facile da trovare. In ogni caso quel referendum segnò uno spartiacque per le politiche energetiche dell’Italia. Il confronto di oggi in materia di Strategia Energetica Nazionale, in buona parte, è figlio di quella battaglia che attraversò il Paese ormai 35 anni fa.

E se in una prima fase la posizione del PCI sul nucleare fu prudentissima e consisteva nel chiedere un freno al nucleare, investimenti in nuove tecnologie alternative e tutela ambientale, dopo il disastro di Chernobyl quel referendum assunse una valenza più generale che andava al di là della semplice abrogazione delle norme contestate e la scelta fu quella di votare “SI” con la richiesta esplicita di un cambio di impostazione del Piano Energetico Nazionale per il superamento delle (allora) attuali tecnologie del settore e una fase di transizione che puntasse sul risparmio energetico, sull’uso non inquinante delle diverse fonti e sul potenziamento della ricerca in tutti i campi. Di tutto questo Trabacchini fu interprete e protagonista in una stagione densa di tensioni e di grandi cambiamenti che si preparavano e sarebbero maturati di lì a poco.

Primo fra tutti l’89. Dal 15 aprile al 4 giugno di quell’anno esplode la protesta in Piazza Tienanmen a Pechino. Per settimane si susseguono manifestazioni di massa promosse da studenti, operai e intellettuali cinesi contro il regime comunista. Quella mobilitazione di milioni di persone culminò in un massacro per mano dell’esercito cinese che aprì il fuoco contro i dimostranti con fucili d’assalto e carri armati. La repressione drammatica e sanguinosa di una protesta pacifica sollevò nel mondo intero una reazione di sgomento che diede nuovo slancio alle rivolte contro i regimi dell’URSS e degli altri Stati del blocco orientale che avrebbero portato alla caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989, e, successivamente, alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’8 dicembre 1991.

A tutto questo il PCI reagì con la svolta della Bolognina (12 novembre 1989). E cioè con la proposta dell’allora Segretario nazionale, Achille Occhetto, di cambiare nome, simbolo e sostanza del partito posto che il mondo che era uscito dalla seconda guerra mondiale non esisteva più ed era necessario intraprendere vie nuove e collocare la principale forza della sinistra italiana dentro il campo socialista e socialdemocratico europeo. Quarto Trabacchini affrontò questo passaggio in modo critico. Non aderì alle tesi di Occhetto e sostenne le posizioni rappresentate da Pietro Ingrao. Ma nonostante lo scontro acceso lui non smarrì mai il senso e la necessità di una forza unitaria della sinistra in cui potessero e dovessero convivere idee e sensibilità differenti.

In ogni caso il cambio epocale che era in corso lo coinvolse in profondità anche per l’altro suo impegno parlamentare e cioè l’attività nella Commissione Difesa della Camera. Perché i cambiamenti, oltre che storici, erano di ordine geopolitico e chiamavano in causa direttamente gli indirizzi di fondo della politica estera e della politica di difesa di tutti i paesi e, segnatamente, di quelli europei. In fondo molte delle questioni di cui si discute oggi di fronte all’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia hanno origine proprio in quel passaggio. E fa una certa impressione rileggere quelle pagine di dibattito parlamentare di trent’anni fa e trovare già evidenziati tutti i temi ancora aperti oggi. In un intervento del 1 ottobre 1993 Trabacchini, rivolgendosi al governo, richiama la necessità di una più incisiva iniziativa italiana per rilanciare la necessità di un’Europa unita, indica le difficoltà dell’Europa a svolgere una funzione diplomatica efficace verso i paesi dell’est e verso il sud del mondo, richiama il tramonto dell’Unione Sovietica segnalando il pericolo rappresentato dall’avvento di Boris Eltsin, parla senza esitazione della necessità di ripensare senso e funzione della NATO dopo la fine del Patto di Varsavia. Quarto Trabacchini non era un pacifista a parole. Costruiva relazioni con associazioni e movimenti e, al contempo, conosceva le forze armate, interloquiva con loro e le rispettava. Aveva la consapevolezza della complessità degli eventi ma credeva nella democrazia e quindi nella possibilità di modificare i rapporti di forza con gli strumenti del dialogo, della diplomazia e della politica per far avanzare gli ideali di libertà, uguaglianza e solidarietà.

Non si tratta davvero di nostalgia.

Chi ha stimato e chi ha voluto bene a Quarto Trabacchini, sono certo, lo ricorderà comunque, ma penso che la sua esperienza politica e umana, di cui io ho solo ripreso dei piccoli frammenti, meriti quell’attenzione necessaria a ricostruire percorsi e idee che non sono stati semplicemente di una singola persona ma hanno rappresentato una grande comunità di donne e di uomini animati dal desiderio e dall’ansia di un mondo migliore e più giusto per tutti.